Nella vita non esiste mai obiettività. Ognuno interpreta ciò che accade in dipendenza di molte cose, primo tra tutti lo stato d’animo, le emozioni che caratterizzano la situazione, poi le persone, i luoghi, i contesti. A volte un piccolo dettaglio di una giornata di sole dà la voglia di affrontare la giornata con uno spirito diverso.
Lo stesso, addirittura in modo amplificato, accade per i ricordi. Particolari insignificanti restano impressi a scapito di aspetti importanti che vengono dimenticati.
In questo processo che caratterizza la percezione e la memoria di qualsiasi essere umano le donne si contraddistinguono per alcuni aspetti che mi sembrano ricorrenti: dimenticano con troppa facilità alcune cose, mentre ne ricordano troppo altre.
Due sono le dimenticanze che riscontro spesso nelle donne.
La prima, probabilmente inevitabile, è di dimenticarsi della propria storia collettiva. Mi capita spesso in aula di sottolineare alcuni passaggi sociali o giuridici. Ad esempio ricordare che donne non hanno votato fino al 1945, o che ancora nel 1920 il Consiglio di Stato escludeva le donne dall’Insegnamento. Ormai abituate ad una parità sostanziale, perlomeno dichiarata, le donne hanno dimenticato che pochissimi anni fa perdevano il loro cognome, potevano essere licenziate se si sposavano, non potevano ereditare.
Ricordare significa anche, in questa dimensione collettiva, che non è scontato avere una lavatrice e che le nostre mamme o nonne andavano alla fontana con le lenzuola sulle spalle, che l’acqua corrente è arrivata agli inizi del secolo e l’elettricità poco dopo.
Il pericolo di guardare solo e troppo il presente consiste nel sentirsi sempre ferme allo stesso punto, nel non realizzare di quanta strada è stata fatta, anche se molta altra ne resta da fare. E’ lo stesso pericolo di guardare quasi con sufficienza le donne che vivono in altri contesti geografici, dimenticando che le nostre condizioni di igiene erano molto diverse solo qualche decennio fa e che il velo era obbligatorio, almeno durante le funzioni religiose, le stesse in cui uomini e donne erano rigidamente separati.
Non voglio con questo esortare alla consolazione: semplicemente ricordare la dimensione collettiva può aiutare a costruirsi un quadro più realistico di ciò che accade, in relazione a ciò che è accaduto.
I pericolosi scherzi della memoria si verificano anche a livello personale, e possono avere funzioni ancora più deleterie sul piano pratico.
Alludo alla pericolosa e ricorrente tendenza femminile a dimenticare i propri successi personali. Un’amica che doveva tenere una importante riunione in inglese è riuscita ad elencarmi i diversi errori che aveva fatto e gli aspetti problematici della situazione, e solo dopo numerose domande ha ammesso che, in fondo, se le era cavata egregiamente.
E’ lo stesso percorso di una importante donna arrivata ai vertici della sua organizzazioni che mi confessava: “Mi hanno chiesto di diventare Amministratore Delegato e la mia prima reazione interiore è stata: quali meriti potevo avere per tale promozione?”
Questa donna nella sua storia personale aveva dimenticato evidentemente i tanti eventi che l’avevano fatta giudicare dei suoi superiori persona affidabile e meritevole di una sfida ulteriore.
Silvia Gherardi e Barbara Poggio, nel loro libro “Donna per fortuna, uomo per destino” (edizioni Etas) hanno raccolto questa tendenza a ricordare le cose diversamente in modo sistematico. La “fortuna” di cui si parla nel titolo, può essere così sintetizzata: “In vari racconti le intervistate tendono a minimizzare le responsabilità e soprattutto il merito della propria storia, valorizzando invece il ruolo di alcune figure, soprattutto maschili”.
Il correlato, ancora più pericoloso, di non essere obiettive con i propri talenti, è di assegnare ad altri il merito della “scoperta”.
L’ultimo scherzo della memoria femminile che vorrei sottolineare è la capacità di ricordare nel dettaglio quella volta che ci siamo sentite offese, oltraggiate o escluse. Poco importa se l’offesa o l’oltraggio siano veri. Il quadro è vivido e contribuisce ad alimentare quel segreto serbatoio di rancore che deborda nei momenti di difficoltà.
Se guardiamo le nostre dita spesso vi sono i fili pendenti di tanti nodi, fili che rimandano a situazioni che i nostri partner, affettivi e lavorativi, probabilmente hanno dimenticato.
Fate una prova: ricordate al vostro compagno un avvenimento di diversi anni fa che ancora vi angustia. Quasi certamente lui ha schiacciato il tasto “Delete” della sua personale memoria cognitiva, mentre voi vi ricordate nel dettaglio quello che è accaduto.
I fili che ci siamo legate al dito sono pezzi di una ragnatela trappola che invischia i movimenti e limita la libertà.
Difficile, ma non impossibile, diventare più obiettive. Ascoltare i feedback, limitare il perfezionismo e – soprattutto – decentrare il proprio punto di vista. In questo possono aiutare gli altri, soprattutto uomini, che hanno meno paura di dare giudizi negativi.
Ripensare alla propria storia diventa un utile esercizio se fatto con obiettività per leggere le proprie competenze, e per sviluppare progetti futuri. Per farlo bisogna diventare capaci di sostenere le proprie eccellenze, ma anche di capire quelle aree che necessitano di miglioramento. Con un po’ di simpatia per sé stesse.
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