Federica è una donna che ho conosciuto molti anni fa, in un momento difficile della sua vita. Stavo tenendo una giornata di formazione in una grande azienda e, come spesso accade lei mi ha accompagnato in ogni momento, come responsabile del progetto. Una giornata è lunga e si arriva a scambiarsi molte informazioni personali. Così verso sera, rimase sole, Federica mi ha raccontato la cosa che più l’angustiava in quel momento: aspettava un bambino, ma il suo lui aveva deciso che non era il momento. Se avesse deciso tenuto il bambino, doveva crescerlo da sola. “Un eterno Peter Pan…” lo definì con tristezza.
Da allora regolarmente ci sentiamo. La bellissima bimba è diventata un’adolescente e, come tutte le sue coetanea, attraversa periodi alterni. Ma soprattutto è in costante lotta con la madre.
Quando Federica mi racconta episodi ben noti a tutte le mamme degli adolescenti aggiunge sempre: “Sai io sono una mamma che lavora, non ho potuto seguirla come avrei voluto….”
Dal suo punto di vista, di madre sola, non riesce a vedere che, come mamme che lavorano, siamo esattamente tutte nella stessa condizione.
Il tema dell’equilibrio dei figli e del lavoro è un argomento che affronto con riluttanza, perché tutta la questione femminile è spesso relegata nella famosa frase: conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. In questo modo si appiattisce una argomento complesso in uno solo dei suoi lati, dimenticando il tema del potere e tutti gli aspetti organizzativi. Se il problema fossero solo i figli, tutte le donne che non ne hanno dovrebbero “danzare sopra il soffitto di vetro”. Invece no, quindi la maternità è uno degli aspetti di un problema più vasto.
Ma dal punto di vista della singola donna che diventa madre il problema è certamente enorme.
E non si tratta solo di una logica “organizzazione dei tempi”. In questo le donne hanno dato prova sia di saper assolvere ad una quantità di lavoro, sommando casa e ufficio, impensabile per qualsiasi uomo, che di saper programmare al minuto ogni attività a volte meglio di numerosi manager. Si tratta invece di sapere gestire senza ansia il “senso di colpa” che molti nemici hanno il potere di evocare.
Le mamme si trovano al confine tra due mondi. Da una parte quello aziendale dell’efficienza e della produzione, dall’altra il mondo degli affetti e delle relazioni.
Descrive bene questa esperienza Elisabeth Perle McKenna nel libro When work doesn’t work anymore. Women, work and identity.
Decide di fare un figlio a 38 anni, e questo le consente di indossare un nuovo punto di vista per leggere ciò che accade in azienda. Beth si rende conto che la conciliazione è impossibile perché i due universi sono abitati da persone aliene tra loro, con valori, esigenze, regole condivise completamente differenti. Il valore assegnato alla velocità in uno dei due territori, quello aziendale, si scontra con il valore della lentezza della cura, il valore della presenza con quello della flessibilità, l’attenzione al risultato con il significato della relazione quindi del processo.
I due universi confinanti hanno le loro guardie armate. In quello aziendale vi sono i teorici delle dedizione, quelli che utilizzano come sciabole gli stereotipi per cui il tempo è sempre uguale a prestazione. Possono essere capi, ma anche colleghi o colleghe. L’essere presi all’inverosimile diventa status symbol, le telefonate in ore serali, la prassi, le battute del tipo “Hai preso mezza giornate di ferie?” quando una persona esce alle 6 di sera, l’elemento simbolico che, irridendo, segnala il diverso.
Dall’altra parte ci sono altre persone, altrettanto religiosamente dedite a stigmatizzare le donne che non dedicano tutto ai figli. Un’amica psicologa mi diceva: “Per stare bene i bambini devono stare con la madre fino a tre anni!” Ho pensato a me, ai miei figli e a quali danni avrei potuto fare loro confinata nell’esclusivo ruolo di madre per tre lunghi anni (moltiplicati per due). In modo ancor più risentito una educatrice mi raccontava che le donne mandano i figli al nido o alla scuola materna anche con la febbre, pur di andare a lavorare. E aggiungeva: “Sono sempre eleganti. Per loro andare a lavorare è spesso un divertimento!”.
I sergenti dell’universo casalingo sono alcune madri e quasi tutte le suocere. Una cara amica che svolgeva un lavoro d’ordine in ufficio mi raccontò che la suocera le aveva offerto l’equivalente dello stipendio per stare a casa a “prendersi cura di suo figlio”. Il figlio della suocera, naturalmente, l’adorato bambino che non aveva ancora imparato a svolgere il benché minimo lavoro di sopravvivenza casalinga. Magari stupefacente condottiero nella giungla, ma atterrato da un calzino o da un piatto sporco.
Le madri che lavorano non hanno solo il problema organizzativo e dei carichi di lavoro, che non sarebbe poco, hanno soprattutto l’immane compito di dovere gestire due universi valoriali tra loro in antagonismo, che cercano – sempre e comunque - di farle sentire in colpa. Da un lato non potrai mai essere una professionista completa, dall’altro non sarai mai una buona madre.
Come fare? Il primo passaggio per evitare o almeno alleggerire questo pericolo è di comprendere che questa modalità è culturalmente situata. In molti paesi, quelli nordici ad esempio, i due mondi hanno trovato molti negoziatori autorevoli che hanno saputo smussare le reciproche asperità. La cultura italiana in questo rappresenta una anomalia mediterranea: uomini che fanno pochissimo in casa (anche se le cose stanno cambiando) e figli per anni dipendenti dagli adulti. Quindi, si può migliorare.
A livello personale invece è importante relativizzare. Se desideriamo che tutti ci considerino perfette, allora il “senso di colpa” vince. Accettiamo l’imperfezione e, soprattutto, diamo una scrollata di spalle e cambiamo argomento quando una delle guardie armante si presenta al confine. Le guerre sui valori sono sempre in perdita.
Soprattutto sappiamo distinguere il “senso di colpa”, dalle colpe vere. Numerose ricerche hanno dimostrato che non vi è connessione sulla saluta psicologica del bambino e il lavoro della madre.
Rubo per concludere una bella frase di Umberto Galimberti: “La colpa è una cosa seria e va espiata, il senso di colpa una cosa inutile che avvelena la vita!”.
Ricordatelo Federica, la prossima volta che tua figlia ti fa arrabbiare….
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