Si sente molto parlare di diversità, differenze, diversity management, spesso con significati diversi ed intenzioni opposte.
Vorrei quindi introdurre una breve riflessione sulle differenze tra le persone all’interno delle imprese mettendone in chiaro alcuni presupposti e focalizzando le difficoltà che rendono difficile la pratica concreta di un approccio così orientato.
Il presupposto: chi si occupa di persone ha spesso una visione ideale, o addirittura idealistica della realtà, e questo non è di per sé un male. Spesso però questo approccio sortisce una serie di ammonimenti, di enfasi retoriche o di appelli morali che poco scalfiscono la vita concreta delle imprese. Questo è il destino di un tema ad alta risonanza di valori come è quello della diversità.
Vorrei introdurre un presupposto molto più pragmatico, ma forse più in sintonia con le sensibilità dell’impresa, partendo da una affermazione: la diversità è un valore economico. La veridicità di tale affermazione si radica in una conseguenza logica di tipo sillogistico, e come tale, confutabile. Se è vero che le persone sono, e sempre più lo diventeranno, la risorsa più importante dell’impresa, se è vero che è in atto una “human capital revolution” per dirla con Gary Becker, premio Nobel per l’Economia, queste persone porteranno inevitabilmente all’interno dei contesti organizzativi una loro diversità.
All’interno di questa tendenza generale, ve ne è un’altra in relazione alle differenze di genere che va sottolineata. Come viene delineato nell’editoriale le donne sono ormai stabilmente nel mercato del lavoro, vi arrivano spesso con scolarità più elevate degli uomini (dal 1981 si è verificato in Italia il “sorpasso” di scolarità), vi arrivano a volte con competenze più appropriate ai nuovi profili.
Le considerazioni svolte finora dovrebbero convincere che la scelta di attuare delle politiche di diversity è una scelta opportuna per l’azienda che vuole attrezzarsi per il futuro.
Purtroppo ciò non sempre è vero: contro questa visione dell’opportunità delle differenze gioca una tendenza inevitabile all’interno di qualsiasi gruppo sociale, quella alla omologazione.
Il riconoscersi come uguali, usare lo stesso linguaggio, vestirsi in modo analogo, privilegiare il tempo trascorso in azienda, avere gli stessi valori di riferimento e così via sono fenomeni naturali, per le organizzazioni spesso fonte di integrazione implicita e quindi viste con favore.
Come si situa una riflessione sul genere, in questa contraddizione che da una lato vorrebbe enfatizzare la diversità e dall’altro favorisce l’omologazione?
Mentre è noto che il discrimine della dimensione biologica delle persone è il sesso, il genere ne costituisce la dimensione culturale.
Il genere come categoria culturale rimanda infatti ad una negoziazione continua tra i diversi soggetti, gli uomini e le donne, nel contesto familiare, nelle organizzazioni e nelle istituzioni.
Questa trasversalità e questa natura implicita devono essere necessariamente tenute presente in ogni riflessione che voglia costruire dei cambiamenti: la cultura da questo punto vista costituisce contemporaneamente il vincolo e la risorsa del cambiamento. Ancora, le categorie culturali sono dinamiche e quindi in continuo mutamento.
Le culture definiscono dei limiti di accettabilità relativamente a molti aspetti. Nel caso del genere regolano ciò che viene ritenuto maggiormente femminile, quali comportamenti sono ascrivibili ad un uomo o una donna ritenuti esempi positivi da parte del gruppo sociale.
Le culture possono essere più chiuse o più aperte, ma inevitabilmente segnano i loro confini. Quindi la constatazione dei limiti di accettabilità diffusi e condivisi all’interno del gruppo sociale, costituisce una lettura concreta dei possibili limiti alla accettazione delle diversità.
Questa problematicità si può affrontare analizzando le proprie culture, conoscendo quelle altrui e rinegoziando dei comuni limiti di accettabilità. Un processo di questa natura che potremmo leggere di cross cultural fertilization è sicuramente fecondo, ma rischia di interrompersi quando si nega cittadinanza ad alcune diversità incontrate. Questo può avvenire per paura del confronto con l’altro, per pregiudizio e ancora perché si giudica inaccettabile moralmente ciò che l’altro propone.
In altre parole quando la diversità incontrata da un gruppo, che chiede di essere ammessa nel gruppo stesso, viene recepita portatrice di valori estranei al gruppo, tale diversità non può che essere respinta.
Per fare un esempio se le donne considerano il tempo un valore molto importante nella propria scala di priorità e sono disposte a cederlo all’impresa limitatamente, tale diversità potrà essere accettata solo se la dedizione temporale non sia caricata di un valore esattamente opposto da parte di chi gestisce le persone: come un simbolo di fedeltà e di dedizione.
Una seconda e più ampia difficoltà di accettazione delle diversità discende dalle tendenze di sviluppo delle organizzazioni. Aziende sempre meno labour intensive chiedono alle persone competenze sempre più elevate, chiedono imprenditorialità, chiedono amore per il lavoro. A fronte di queste richieste offrono una dimensione quantitativa – economicamente e simbolicamente - che però non è sufficiente ad attrarre e mantenere i talenti. Le persone che svolgono un lavoro ad intensa motivazione chiedono anche una chiara visione e una missione su cui identificarsi.
Le aziende quindi chiariscono i propri valori e le motivazioni a cui si ispirano chiamando a raccolta gli omologhi a queste visioni.
Se ci si ricollega a quanto sopra descritto relativamente alla difficoltà di accettare valori diversi, soprattutto se elevati nelle singole scale di priorità, si comprende come queste tendenze siano esattamente opposte alla diversità come valore.
Assistiamo quindi in relazione alle diversità a due processi di segno opposto: da un lato la human capital revolution dovrebbe tendere a valorizzare le differenze, dall’altro le organizzazioni sempre più destrutturate nelle forme organizzative e lasche nei sistemi operativi, non possono che coagulare su valori tendendo all’omologazione.
E’ questa una contraddizione inevitabile, di enorme portata, che deve essere gestita nella sua contraddittorietà.
Si tratta, ancora una volta, da parte delle persone che gestiscono le imprese e che si prendono cura delle persone, di analizzare attentamente i fenomeni in atto, di monitorare i segnali di cambiamento e di progettare nuovi e originali strumenti di gestione.
Quali i segnali di novità, le richieste diverse che pone il genere femminile alle organizzazioni che cambiano?
In primo luogo vi è una diversa idea del tempo, che riguarda certamente le problematiche e le difficoltà di gestione del doppio ruolo, ma che si riferisce anche ad una diversa valorizzazione del tempo come elemento di una scala di valori individuale.
Le donne appaiono meno disposte a dedicate tutto il proprio tempo all’impresa, non solo per salvaguardare la parte lavoro di cura da destinare ai figli, ma anche per avere del tempo per sé, da spendere in attività diverse, che possono essere culturali o di altra natura.
Accogliere questa diversità vuol dire per le organizzazioni modificare le modalità spazio-temporali del lavoro, trovare soluzioni di flessibilità che non siano esclusivamente di estensione del tempo di lavoro, ma di modularizzazione, di nuove modalità di integrazione.
Ancora l’altra metà del management spesso non si riconosce nelle modalità di comunicazione e di gestione del potere esistenti. E’ uno dei motivi di disagio maggiormente sottolineati che può addirittura diventare motivo di autoesclusione delle donne dai livelli più elevati.
D’altro canto, come abbiamo sottolineato precedentemente, i gruppi sono omofili al loro interno, privilegiano stili e modalità di comportamento simili. Quindi è fisiologico che gruppi di potere maschili operino escludendo stili di leadership e di gestione non omologhi, quindi escludendo le potenziali differenze.
E’ questa una barriera molto forte al superamento del cosiddetto “soffitto di vetro”: da un lato i gruppi che occupano le posizioni di vertice tendono ad escludere le differenze, dall’altro le portatrici di tali differenze, sentendosi a disagio nel portare comportamenti che sconfinano dai “limiti di accettabilità” implicitamente definiti dal gruppo dominante, tendono ad autoescludersi.
Accettare le differenze in questo caso significa riuscire a mettere sotto esame lo stile di leadership aziendale, le modalità di gestione implicite, i tratti culturalmente profondi e a riderfinirne le coerenze. Sfida interessante, ma non certamente facile.
Le diversità di genere propongono ancora alle organizzazioni di rivisitare i propri sistemi di gestione delle persone. Chiedono sistemi di valutazione e valorizzazione delle competenze che accolgano le diversità, propongono sistemi di premio differenziati in relazione alle diverse priorità individuali, pur salvaguardano la necessaria equità organizzativa.
Le idee sommariamente tratteggiate relativamente alle differenze di genere possono costituire un banco di prova per le organizzazioni che vogliano cimentarsi nella esplorazione della contraddizione sopra delineata: da un lato diventare più omogenee ed identificate nei valori condivisi, dall’altro accettare e valorizzazione al proprio interno delle diversità. Una sfida veramente interessante per gli uomini e le donne del personale!
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