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Il rispetto: una solida base per le strategie di inclusione

Immagine del redattore: Cristina BombelliCristina Bombelli

Ciascun volto è il simbolo della vita.

E tutta la vita merita rispetto.

È trattando gli altri con dignità che si guadagna il rispetto per sé stessi.

(Tahar Ben Jelloun)





Indice




Premessa


Il tema della diversità individuale e dell’inclusione in un contesto aziendale rischiano di rimanere un elemento ideale se non ancorato a delle riflessioni concrete circa le modalità con cui questa auspicata inclusione avviene o, di converso, non si realizza.

L’affermazione di principi è certamente la base per iniziare un percorso che deve però concretizzarsi in una comprensione più chiara delle dinamiche di esclusione attuate dagli individui, dai leader e dai gruppi. Solo attraverso questa comprensione, e quindi una diagnosi delle situazioni organizzative, è possibile costruire una cultura realmente inclusiva che si estrinsechi nei comportamenti quotidiani.


È partendo da questa idea che si intende identificare il rispetto come l’elemento alla base del riconoscimento della dignità personale, elemento centrale per qualsivoglia percorso di inclusione della diversità.


Il lavoro che viene proposto, pur attingendo a diversi ambiti di conoscenza, ho lo scopo di definire alcune proposte operative all’interno dei luoghi di lavoro, offrendo uno spunto di riflessione allargato, ma che possa poi tradursi in prassi concrete sia di formazione che di attenzione manageriale.





Il punto di partenza: alle radici delle differenze


Ogni persona lo ha sperimentato: nella costruzione dell’identità, nelle prove che la vita riserva e a cui ci si sottopone volontariamente, esiste un tema dominante, quello dell’essere accettati dagli altri, ma prima ancora di auto-valutare sé stessi come degni di stima.

Una dinamica che inizia già da bambini, osservando con una profonda attenzione il comportamento dei genitori, decifrando il sorriso che la mamma riserva al fratellino o alla sorellina, costruendo dentro di sé, una visione delle proprie capacità e potenzialità.

Si acuisce nell’adolescenza quando il tema diventa cruciale per presentarsi al mondo. Uscendo dall’universo famigliare e avviandosi verso la vita adulta si passa attraverso quel gruppo di pari che, a sua volta, si confronta con altri. Quanti genitori paventano questo momento, spesso carico di pericoli.

Quando il gruppo diventa la prima fonte dei comportamenti “accettati”, di quelli giusti, spesso carichi di sfida verso l’universo mondo. Le famose “cattive compagnie” possono diventare rapidamente quei cattivi maestri che istillano modalità di sfida per sentirsi, ancora una volta, almeno pari con gli altri, molto meglio se leader riconosciuti.


Il confronto, l’invidia, il desiderio di primeggiare, la costruzione dei confini tra sé e gli altri, sono dinamiche che fanno parte della vita, che ciascuno ha sperimentato e che, nella quotidianità, possono purtroppo fare molte vittime. Tante sono le persone che crescono attraversando questi momenti quasi di iniziazione, evitando i pericoli maggiori, ma altre ci lasciano la possibilità di un sviluppo positivo per sé e, di conseguenza, per gli altri che li circondano.


Esiste un’attrazione fatale per i gruppi “esclusivi” che possono permettersi ciò che alla massa, al volgo, non è consentito. La tipologia di esclusività è ovviamente legata ai propri valori: ambienti di persone con molti soldi, piuttosto che network in qualche modo privilegiati, oppure i gruppi che incarnano il prestigio, a volte negativo, ma che ispira le appartenenze, come nel caso della mafia o della camorra.


Con queste osservazioni si vuole mettere in luce come le dinamiche di esclusione siano antiche come il mondo e come la scelta del “rispetto” come base per affrontare l’inclusione non sia scontata. Per arrivare a gestire queste “normali” dinamiche è necessario pensarci, mettere in luce cosa accade e scegliere come comportarsi di conseguenza. Lasciati a sé, i gruppi umani, non fanno altro che esasperare le “linee di faglia”, accentuale le differenze, pensandosi sempre e comunque migliori degli altri.

La terapia, come sempre, consiste nella consapevolezza e nella comprensione delle modalità comuni in cui individui e gruppi si relazionano per poter poi cercare di intervenire in modo attivo.





La banalità dei confini noi / loro: le linee di faglia


Per comprendere la costruzione delle “linee di faglia”, ovvero quei confini invisibili, ma profondamente operanti tra i gruppi, sia nella società che nelle organizzazioni, è necessario innanzitutto, un passo indietro. Presi della frenesia dell’esperienza, ingaggiati nei continui confronti e nelle valutazioni, ciascuno trascura la comprensione più ampia, ovvero il decifrare, come nell’osservazione di una carta moneta in controluce, delle sottili linee di separazione.

Eppure è piuttosto semplice, spesso basta ripensare alla propria esperienza, guardarla per un momento con occhio distaccato e si possono cogliere molti di questi solchi, a volte appena accennati, altre ancora profondi come insormontabili forre.


Alcuni esempi di vita vissuta che possano aiutare in questa operazione di decifrazione che deve, come vedremo successivamente, riguardare in primo luogo sé stessi.


Una cena tra amici. Una persona racconta di un programma televisivo che l’ha molto interessata. La reazione di alcuni è netta: “Noi non guardiamo la televisione”. Il linguaggio non verbale che accompagna questa affermazione è di malcelato disprezzo, verso chi, invece, la televisione la guarda.


Durante un evento aziendale a cui sono invitati i consorti dei collaboratori, dopo uno spettacolo musicale, viene offerta una cena a base di carne grigliata. Una delle giovani moglie di un neo dirigente si lancia in un appello accorato contro i carnivori, sostenendo le ragioni del suo essere vegetariana, modificando comprensibilmente il clima positivo dell’evento.

In modo speculare recentemente un grande chef si è lasciato andare ad osservazioni contro i vegani non propriamente lusinghiere, se non apertamente insultanti.


Una persona da poco incaricata di seguire le relazioni sindacali per la sua azienda, all’interno dell’ufficio del personale, si reca all’ufficio provinciale del lavoro per una transazione. Qui conosce per la prima volta un sindacalista esterno all’azienda che si lamenta in modo molto aggressivo, del fatto che la persona in questione non gli fosse stata ancora presentata.

Dopo l’incontro aggiunge: “Sappia che in me avrà sempre un nemico. Non è una questione personale, lei mi potrebbe anche essere simpatica, ma lei rappresenta il padronato, per me un nemico!”.


Durante un corso per acquisire il diploma di coach una persona sente per la prima volta parlare di ACC e PCC. A tavola una delle partecipanti al corso lodava un docente come uno dei migliori, che ovviamente era PCC… Non osando chiedere appena possibile trovò la chiave in internet: ACC il primo livello di certificazione (Associate Certified Coach), il secondo Professional Certified Coach e il terzo ed ultimo, il massimo della riverenza, Master Certified Coach. Titoli che, nel gruppo dei coach, venivano citati con venerazione, quasi con soggezione. Mentre per lei, nuova arrivata, sembravano delle normali attribuzioni. Ad un certo punto, dato il sussiego con cui proseguiva la conversazione, si chiese cosa ci facesse lì.




Situazioni molto diverse che ci offrono molti spunti di riflessione, relativamente non solo alla creazione delle linee di faglia, ma anche all’importanza relativa che rivestono per i singoli.

Nelle dinamiche sopra delineate, quali esempi a cui si possono aggiungere situazioni anche molto più complesse e limite, quello che notiamo come filigrana è l’interconnessione tra l’identità individuale, il ruolo del gruppo e le interazioni tra i differenti gruppi.

Sono dinamiche molto studiate sia nella psicologia individuale che in quella sociale, dinamiche che, purtroppo, spesso si sottovalutano nella vita quotidiana, soprattutto quella aziendale.


Il tema dell’identità individuale offre un primo elemento fondamentale di riflessione circa la necessità di ciascuno di “trovare casa” all’interno di un gruppo di persone. Non è solo la dimensione prima della coppia e poi della famiglia, che costituiscono certamente il primo nucleo di confronto con cui identificarsi o da cui separarsi. Si tratta della inestinguibile necessità del genere umano di trovare conforto nelle proprie idee, credenze, valori con altri che la pensino allo stesso modo.

Penso che ciascuno di noi, nella propria storia, possa descrivere dei momenti – quasi magici – di riconoscimento profondo dell’altro.

E’ in questo rispecchiamento che nasce da un lato la felicità dell’essere accolti, ma dall’altro il rischio del famoso in-group (noi siamo i migliori, le nostre idee sono quelle giuste e così via) che potrebbe rapidamente trasformarsi nel group-think (ovvero quella modalità cognitiva, che possiamo definire bias a tutti gli effetti, per cui non si ascoltano più idee dissonanti alle proprie, con una selezione radicale delle fonti).


Questa china è caratterizzata dal giudizio di valore. Se guardo con malcelato disprezzo chi guarda la televisione, per rifarsi al primo degli esempi, è evidente che per noi è un valore positivo il non guardarla.

Tra l’altro, nella vita quotidiana, ci sono una miriade gli esempi possibili. Prendiamo, per fare un esempio molto banale, chi sceglie la vacanza in campeggio. Nella visione più accettata in Italia è una scelta di risparmio, mentre nella visione francese è una scelta di tipologia di approccio. Ovviamente in entrambi i casi con le dovute eccezioni.


Il tema di fondo sta nel saper accettare profondamente la libertà dell’altro di scegliere altre strade, diverse dalla propria, senza connotare tale scelta in termini negativi e senza viverla come un affronto alla propria, diversa, scelta di merito.

Purtroppo, la fisiologia della linea di faglia, nasce soprattutto quando la decisione è sofferta. Se ho deciso con molti dubbi di lasciare il lavoro dopo la nascita del figlio e di fare la mamma a tempo pieno, sarà molto difficile per me guardare le mamme indaffarate nella gestione del doppio ruolo senza connotare la mia scelta come la migliore. E questo vale per moltissimi ambiti, anche meno emotivamente coinvolgenti.


Possiamo però concludere che alla base del giudizio di valore ci sta, generalmente, una scelta sofferta ed emotivamente sfidante.


Una notazione rispetto alla dinamica sollevata nell’ultimo esempio, quello dei coach. In moltissimi gruppi, le linee di faglia, sono note esclusivamente al gruppo stesso. Per moltissime persone non è chiaro cosa faccia un coach e, a maggior ragione, non hanno idea di cosa possano significare le sigle riportate. A conferma che spesso è il gruppo stesso che amplifica le differenze per giustificare una reputazione cercata/dovuta dagli altri.

Sono i “gradi sulle maniche” che vengono mostrati a riprova della propria importanza e che, al di fuori degli addetti ai lavori o dell’entourage più stretto, non hanno alcun significato. E da questo esempio si comprende come l’apertura mentale nasce proprio dalla frequentazione di diversi gruppi e da “viaggi” nei mondi altrui.


E’ importante prendere coscienza al contempo della fisiologia e del rischio di queste dinamiche: la fisiologia consiste nel fatto che il genere umano si confronta continuamente per definire sé in relazione agli altri. Da questo confronto nasce e si costruisce la sua identità e la sua reputazione nel gruppo. Il rischio è evidente: la perdita della capacità critica per essere accettati e inclusi nel gruppo, per accrescere, appunto, la propria reputazione.

Dopo aver messo in luce le problematiche è importante osservare anche la parte positiva dell’oscillazione tra noi e gli altri, tra un gruppo e l’altro.


Come scrive Sennet (pag. 125) “Nel sentire quanto voi differite da me, io importo molto di più sulla mia specificità individuale. E’ proprio questo ritmo di identificazione e differenziazione che caratterizza il processo di autonomia tra gli adulti come tra i bambini, un processo che va costantemente rinnovato. Concepita in questo modo l’autonomia è un potente vettore di uguaglianza.”


Quindi è proprio attraverso questa dinamica, in cui si sottolinea la parola “ritmo”, ovvero un’oscillazione sempre presente tra il riferirsi a sé e il confrontarsi con gli altri, alla ricerca di un equilibrio tra la solitudine colpevole di chi si reputa superiore agli altri evitando accuratamente la conferma e chi invece tradisce sé stesso per dimenticare i propri confini e trovare l’esclusiva ragion d’essere nell’approvazione altrui.




Autonomia e rispetto di sé


Partendo dalla dinamica di costruzione dell’identità, tralasciando necessariamente di approfondire le numerose con-cause che portano ciascun individuo ad essere come è – può essere utile in questo contesto riprendere il tema dell’autonomia come supporto per un confronto sano con gli altri e con i gruppi che si attraversano. L’autonomia è quel confine che – come sottolineato precedentemente – attraverso un ritmo dinamico, costruisce quella base di sicurezza di sé, di auto-stima e di self confidence, necessaria a partecipare, senza essere assimilati; a relazionarsi, senza appiattirsi; ad esprimere la propria opinione senza rinchiudersi o tradirsi.

Facile a dirsi, difficile a farsi. La conservazione del ritmo, pur nelle necessarie sbandate che possono essere fisiologiche, riguarda molto della personalità, delle attitudini, ma anche delle modalità pragmatiche che si mettono in atto.


Da questa autonomia nasce la base del rispetto che è il rispetto di sé.


Come osserva Sennet (pag. 126), Persone o gruppi che manchino di fiducia in sé difficilmente esprimono apprezzamento per ciò che realizza l’altro; l’insicurezza verso sé stessi rende la gente parsimoniosa a concedere rispetto e si innesca la dinamica del gioco a somma zero.


Esiste quindi una mutualità tra il rispetto di sé e il rispetto altrui, in una spirale che può diventare virtuosa o devastante.

I luoghi di lavoro, da questo punto di vista, possono diventare dei contesti che alimentano la stima di sé offrendo delle opportunità di apprendimento e di valorizzazione.

Lo sviluppo di qualsiasi talento porta con sé un elemento fondamentale di ogni arte e mestiere: fare qualcosa per il solo piacere di farlo bene, ed è questo aspetto della professionalità che garantisce all’individuo un senso profondo di stima di sé” (Sennet, cit, pag. 30).


È interessante notare che il lavoro diventa base di costruzione della stima di sé quando auto-valutato. Ovvero all’interno del processo di autonomia, l’individuo si sente realizzato attraverso la sensazione, individuale e soggettiva, di avere prodotto qualcosa di significativo, per sé prima ancora che per gli altri o per i superiori o per il contesto in cui presta la sua opera.

Questa lettura avvicina all’auto-realizzazione, il famoso vertice della scala di Maslow. Come dire qualcosa che non prescinde certamente dai feedback e dal rispecchiamento altrui, che ma si radica nella propria personale e autentica sfera di valori. Un artigiano può cogliere questo spunto dal prodotto del suo lavoro, un insegnante da una lezione particolarmente ben riuscita, un negoziatore da un contratto sfidante portato a conclusione, e così via, con una valutazione personale che è al contempo cognitiva ed emotiva.


In questa ottica il processo di autovalutazione e costruzione della stima di sé, collegato alle proprie radici profonde, si riallaccia al tema della diversità e della sua tolleranza. Il gioco tra i singoli valori e quelli degli altri misura aree di convergenza, di sovrapposizione e di distanza. Dal punto di vista individuale, invece, la capacità di osservare in modo distaccato, e di dare coerenza al proprio sistema di valori, risiede proprio nella sperimentazione dell’autonomia.



La dimensione speculare – facilitante o ostacolante – è quella del contesto aziendale. E qui il pensiero va sia alle regole, ad esempio di performance management, che alle modalità di erogazione del feedback. Temi articolati e complessi che non possono essere trattati in modo esauriente in questo contesto, ma che – nella logica del rispetto – devono ancorarci ad alcuni principi.

Da un punto di vista delle regole, ovvero dei criteri di valutazione della performance, al rispetto della diversità di posizioni organizzative di contributo individuale. Un aiuto, da questo punto di vista, potrebbe essere dato dalle intelligenze multiple di Gardner (2002), che concepisce il contributo al risultato come il frutto di approcci diversi, ma tra loro complementari.

Dal punto di vista del processo molta retorica si è fatta sulla modalità di erogazione del feedback, spesso non ancorata a quel concetto di autonomia sopra delineato.

Come ogni valutatore sa le modalità non possono essere caute e attente, ma i cui effetti variano a seconda della persona che ci si trova di fronte, della sua capacità di cogliere e riflettere sui feedback negativi (competenza abbastanza rara) e, quindi, di fare tesoro dei suggerimenti.

Ovviamente il feedback deve essere il più possibile puntuale e non minacciante la persona, e ancorato alla prestazione, ma deve – come vedremo successivamente in collegamento con il rispetto – strutturare una relazione di non dipendenza.

Esiste anche, come è inevitabile, un collegamento al contesto sociale, al rispetto di sé, ma ancora più profondamente all’identità.

Come ben sottolinea Baumann (2005) le modalità di costruzione dell’identità sono profondamente cambiate nell’età moderna, con il rischio di un passaggio repentino da una strutturazione ingessata e potenzialmente senza cambiamenti per decenni, ad una “liquidità” progressiva a rischio di sradicamento personale.

Interessante anche qui sottolineare come i contesti lavorativi giochino un ruolo forte nel consentire di aggregarsi a visioni, progetti e persone. Degli attori sociali tradizionali, il vicinato, l’oratorio e la chiesa, i partiti, oggi sembrano operare in questo senso le associazioni e, appunto, il mondo del lavoro.




Alla base del rispetto: la dignità


Idealmente quasi tutti (il quasi è d’obbligo) sono d’accordo che ogni individuo, ogni persona, sia degna di un insieme di comportamenti che gli sono dovuti solo ed esclusivamente perché è un essere umano. Ma la storia ci ha insegnato quanto sia facile superare il confine e l’attualità continua a confermarlo.


Nel passato questa idea non era affatto scontata. Il primo che esplicita chiaramente il concetto di dignità è Pico della Mirandola, 1486, con il De hominis dignitate. Con un salto temporale si può ricordare il famoso discorso sulla disuguaglianza di Rousseau (1754) e Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene” (1764) per rammentare come fu l’Illuminismo ad affrontare per primo il tema della universalità della dignità umana, un seme che, come già sottolineato, non sempre è attecchito in eguale misura nei contesti sociali.


Con Harlem (2010) possiamo tracciare alcuni elementi che sono alla base di un accordo di reciproco rispetto come base per il riconoscimento della dignità della persona.


  1. L’uomo come fine e non come mezzo

Uno degli imperativi categorici di Kant, che diventa nella pratica un tema molto complesso, perché anche nelle relazioni quotidiane siamo portati a utilizzare persone per fini personali. Il tema rimanda anche ad un fondamento delle modalità organizzative del lavoro: quando la persona diventa mero mezzo, senza considerare le sue attese, i suoi desideri, le sue aspirazioni? Un ambito che rimanda non solo evidentemente a luoghi di puro sfruttamento, ancora molto presenti anche nelle realtà industriali avanzate, ma anche nelle situazioni di “contratto psicologico” più progredite in alcuni ambiti di lavoro estremamente parcellizzato e ripetitivo;


  1. L’uomo come persona e non come oggetto

Anche in questo caso esistono ancora molte situazioni estreme, basti pensare al traffico di essere umani che ogni giorno si consuma nel Mediterraneo. Nei contesti più comuni ritorna il tema dell’alienazione del lavoro e delle attenzioni da porre nei lavori di cura e nei contesti assistenziali / sanitari.


  1. Autodeterminazione

Anche l’autodeterminazione ha confini molto ampi che sfidano l’etica, basti pensare alle scelte di cura e di fine vita. Nell’ambito più ristretto del lavoro si tratta della dimensione delle opportunità, dell’accesso alle informazioni e alle relative possibilità. Contraltare di questi elementi di contesto vi sono chiaramente delle competenze da esibire per poter accedere. Un tema da porre in agenda in un contesto sociale e lavorativo, dove le strategie di apprendimento individuale sono una solida base all’inclusione. Da questo punto di vista proporre attività di self learning supporta sia lo sviluppo dell’impiegabilità che l’inclusione nel lavoro.


  1. Libertà di decisione

Il dilemma coercizione / libertà di decisione non è anch’esso semplice da dirimere. La collettività ha dato una risposta con il “contratto sociale” per richiamare ancora il padre dell’Illuminismo, che si traduce in leggi formulate da persone delegate a farlo dalla maggioranza. Molti però sono i dubbi che rimangono: l’obbedienza è sempre necessaria? Quando e come è “giusto” trasgredire? Quanto, il gruppo a cui apparteniamo, sollecita obbedienza o trasgressione? Come si può intuire sono tutti elementi che ritornano anche nel mondo del lavoro.


  1. Rispetto dell’intimità

Ancora un tema molto legato ai contesti di cura e anche ai luoghi di detenzione e pena, ma che ritorna nel mondo del lavoro collegato al rispetto della privacy. Un tema anche questo molto recente, da un lato profondamente normato, dall’altro – con l’arrivo dei social network – continuamente trasgredito anche in termini molto violenti. È evidente che non è un confine di facile soluzione, che richiede una riflessione, ma soprattutto lo sviluppo di una cultura condivisa attenta a queste tematiche.



  1. Uguaglianza dei diritti, contro ogni discriminazione

Un principio che deve sempre essere ricordato, che solo pochissimi anni fa, anche nel mitico occidente avanzato, aveva delle profonde trasgressioni. Il gesto di Rosa Parks è “solo” del 1955, un periodo molto recente. E la fine dell’apartheid è del 1990!

Nei contesti lavorativi se abbiamo affermato di diritto alle pari opportunità, ovvero la dimensione positiva di un approccio egualitario, è necessario porre profonda attenzione alla dimensione negativa, quella dei diritti negati, che può sempre risorgere per alcuni gruppi di individui, indipendentemente dalle loro prestazioni.




Rispetto e gestione delle diversità in azienda


Molti sono gli spunti che possono portarci ora a situare il tema del rispetto in relazione all’inclusione delle diversità, uno dei temi oggi più attuali nelle agende organizzative. Cercheremo di ripercorrere alcuni di questi spunti per tracciare un possibile piano di azione nell’affrontare il tema del rispetto nel contesto lavorativo.



  • Identità aziendale e individuale

All’inizio di questo lavoro abbiamo sottolineato come il tema del rispetto e della conseguente possibile esclusione sia un fatto identitario. Dal punto di vista aziendale si propone una vision, che definisce il fattore di attrazione delle identità individuali, e dal punto di vista delle persone supporta nel costruire nel tempo una visione di sé che collima o meno con quanto proposto dall’azienda (Weick, 1997). Prima ancora di ogni azione di natura operativa è necessario riconoscere se l’organizzazione propone un “senso” all’agire anche implicito. Questo è un tema chiave perché esistono degli errori possibili che possiamo rapidamente elencare: non proporre alcun significato, ma lasciare lo scambio persona/azienda solo nell’universo economico, vedi alcuni ambiti della PA; eccedere nel senso di appartenenza (della serie noi siamo i migliori) sviluppando una cecità rispetto alla realtà; lasciare che ogni sottosistema ci crei il suo “senso”, sviluppando una guerra intestina legata al noi/loro; proporre un “senso” falso, legato alle necessità di comunicazione, ma che le persone percepiscono come non reale.


  • Le “linee di faglia”, ovvero riconoscere il “group-think

Qualsiasi operazione di costruzione di senso, deve nascere dalla consapevolezza dell’esistente. Aiutano le indagini di clima, ma anche l’ascolto più o meno strutturato. Riconoscere quali siano inoltre i gruppi che agiscono, i noi – loro che da normali punti di vista diventano delle patologie, è precondizione indispensabile per ogni intervento sull’inclusione.


  • I comportamenti organizzativi,

intesi come le modalità maggiormente condivise dalle persone che lavorano, si muovono tra una formalità che può rasentare il moralismo e l’accettazione di trasgressioni che possono diventare scorrettezza. Credo sia capitato a tutti di fare delle battute, soprattutto dopo momenti particolarmente coinvolgenti da un punto di vista emotivo, ad esempio una trattativa sindacale, un incontro di team particolarmente problematico. Sono i classici “fuori onda” con cui si nutrono i giornali di pettegolezzi. Ci lascia andare, si giudica impietosamente, si irride. Se ad aderire a questi comportamenti sono i capi, soprattutto quelli con una certa reputazione, questo diventa la prassi. Si “sdogana” una scorrettezza che diventa scuola. È utile qui ricordare come non esista una distinzione tra fatti e parole, da questo punto di vista, come ha insegnato Austin (1962), anzi i significati passano attraverso le parole, diventando fatti oltre che viceversa.


  • Humor o denigrazione?

Lo humor è una grande risorsa: aiuta ad alleggerire le situazioni difficili, aumenta la capacità di vedere le cose da punti di vista molto diversi, insomma è ormai chiarito dalle ricerche che è un alleato sia nel costruire una visione allargata e positiva della vita, che per affrontare momenti di difficoltà (Ruck, 1998). Ma, come è prevedibile, la modalità di utilizzo dello humor, può diventare molto irrispettosa. In particolare sono state studiate le modalità con cui le battute di spirito possono segnare delle linee di in-group, denigrando, anche in modo non troppo sottile, altri gruppi (Hodson, Rush, Macinnis, 2010). Una esperienza che tutti hanno vissuto, quella del gruppo dominante, sia esso reputazionale nelle dinamiche sociali, o legato al contesto organizzativo, che utilizza un proprio codice, facendosi beffe di altri. Gli “altri” possono essere di funzioni diverse, concorrenti, tifosi di un’altra squadra di calcio e così via. Una notazione particolare è da riservarsi allo humor maschile connotato in modo sessista. Gli apprezzamenti condivisi, ma anche ironie peggiori sulle caratteristiche delle donne, sono molto diffusi e costituiscono un’area molto rischiosa, al confine con l’insulto.

Irresistibile, sempre i gruppi maschili, è l’irrisione agli orientamenti sessuali diversi. I gay sono soprannominati in modo scurrile, viene sottolineata la loro diversità e si condivide una ilarità profondamente denigrante.

Penosa, infine, è la situazione, vista purtroppo molto volte, delle battute del capo senza assolutamente senso dell’humor, ma su cui si sorride per compiacenza o piaggeria.

Visti gli aspetti positivi dello humor, si può dire che vale la pena di approfondirlo, cercando di condividere con il gruppo i rischi che questo comporta, quando esso approfondisce, invece che superarle, le linee di divisione tra i gruppi.


  • La relazione di aiuto: alla ricerca dell’autonomia

In molti momenti della vita aziendale hanno luogo delle “relazioni di aiuto” formali o informali. Quelli formali potrebbero essere costituiti da una relazione di mentoring o di affiancamento. Informalmente da una persona più senior che si assume il ruolo di supporto per un giovane. Può accadere che lo spunto sia un momento difficile della vita, in cui una persona amica, ma legata da una relazione lavorativa, supporta e consiglia. Le relazioni, come dimostrano i feedback nei progetti di mentoring, possono essere molto gratificanti, ma è necessario prestare attenzione al rispetto dei confini, gestendo la situazione verso una reale autonomia. Anche nelle relazioni di aiuto classiche, bisogna porre attenzione a quella che viene definita la “sindrome rancorosa del beneficiato” (Parsi, 2011), evitando la strutturazione di situazioni esclusivamente basate sul dare.


  • Leadership inclusiva

Da quanto descritto finora è evidente che una grande responsabilità nella creazione di una cultura inclusiva e permeata di rispetto dipende da coloro che rivestono posizioni gerarchiche rilevanti. Il peso di una parola, detta da un leader, cambia completamente e consegna al gruppo un esempio di comportamento. Lo stesso vale anche per chi non ha una posizione particolare, ma diventa un opinion leader. Persone che hanno incarichi sindacali ed esempio, o molto reputate dal punto di vista delle competenze o per una anzianità riconosciuta. Nel trovare il giusto equilibrio di comportamento aiutano molto le regole, in particolare quelle che stabiliscono le modalità di costruzione degli obiettivi e le conseguenti modalità di valutazione dei risultati.

C’è, inoltre, da mettere in conto quanto una comunicazione maleducata, che attua censure preventive invece di capire, che denigra invece di sperimentare un punto di vista, sia deleteria nei processi decisionali. Se i processi prevalgono sui contenuti, non aiutando a mettere a fuoco i problemi in modo realistico, con il sostegno di dati, con un approccio razionale, di conseguenza i risultati delle decisioni rischiano di essere di qualità scadente.


  • Collisioni tra rispetto di sé e quello degli altri: la gestione delle emozioni

La dimensione della reciprocità riguarda il processo di riconoscimento di due individui. Prendendo a prestito le parole di Bordieu sull’onore: Un individuo che veda sé stesso attraverso gli occhi degli altri, che ha bisogno degli altri per la propria esistenza, perché l’immagine che egli ha di sé è indistinguibile da quella presentatagli dagli altri” (2003). In questa dinamica un ruolo fondamentale la giocano le emozioni. L’azione delle “linee di faglia” tra i gruppi, così come tutti gli elementi sopra descritti, trovano azione in un teatro in cui le persone sono coinvolte nella loro interezza. La paura, ad esempio, ha un ruolo fondamentale nei processi di esclusione, così come l’orgoglio che si prova nell’essere i migliori in una struttura di gioco competitiva, che spesso travalica nel denigrare l’altro, il perdente. Sono anche in gioco dinamiche reputazionali, tanto che proprio il termine “rispetto” viene usato per indicare la manifestazione di una soggezione mirata a farsi accogliere in un gruppo mafioso (essere un uomo di rispetto, dovere rispetto).


Nella disamina organizzativa è importante essere accorti anche nel cogliere i flussi emotivi che accompagnano queste dinamiche e trovare parole per descriverli e condividerli. Conoscere, come sempre, è il primo passo per intervenire. Analogamente la consapevolezza individuale circa la propria situazione emotiva è uno spiraglio di comprensione del proprio agire fondamentale. Nessuno è esente da stereotipi e pregiudizi, essi sono scorciatoie mentali fisiologicamente attuate da ogni cervello. L’importante è non abbandonarsi ad essi o, peggio ancora, farne un manifesto per escludere qualcuno, solo sull’onda emotiva.





Le trappole culturali


I contesti multiculturali sono estremamente accidentati per quanto riguarda il rispetto.

Come sottolinea Sennet: “I rituali della vita sociale sono complicati lavori a maglia per tenere insieme la gente, con la differenza che il tessuto sociale non ha una partitura già scritta: esso emerge attraverso prove ed errori, e poi si incide nella memoria come tradizione” (pag 212).

E’ praticamente impossibile arrivare a conoscere ogni tradizione, da questo punto di vista, ma diventa inevitabile, quando si entra in contatto con un’altra cultura, muoversi con circospezione, cercando di conoscere preventivamente alcune delle modalità di rispetto socialmente accettate, oppure di utilizzare una intelligente curiosità per inserirsi in modo rispettoso.

Aiuta, da questo punto di vista, capire il “dove” ha luogo l’incontro. Se il contesto è un melting pot, sarà più facile muoversi senza soverchie preoccupazioni, ma se si è ospiti di una cultura omogenea e coesa è indispensabile raccogliere le informazioni che consentono di evitare offese involontarie.

Sono soprattutto le culture cosiddette ad “alto contesto”, le asiatiche in primo luogo, che condividono una dimensione rituale di rappresentazione del potere e di riconoscimento dello status che non si può violare impunemente, pensa il rischio di produrre una frattura difficile da risanare.

Esistono in ogni caso degli “universali” che possono ascriversi alla “cortesia” che possono venire in soccorso anche in situazioni culturalmente molto segnate.

La cortesia come risposta


“Cortesia” è un termine impegnativo, che evoca un passato più formale che sostanziale, un vuoto un po’ pomposo. Difficile però trovare un altro termine che possa esprimere un atteggiamento attraverso cui praticare il rispetto che abbiamo finora delineato. Riprendiamo in particolare i suggerimenti di Giovanna Axia (1996) che approfondisce le modalità attraverso cui la cortesia può diventare una risposta convincente ad una convivenza necessaria, come quella nei luoghi di lavoro.



  • L’alternanza – è un’attenzione molto semplice relativamente alla comunicazione. Vi sono persone che, magari sull’onda dell’entusiasmo, espropriano continuamente il proprio interlocutore dello spazio di parole. L’alternanza è la base dell’ascolto, un altro aspetto di cortesia, oltre che di intelligenza, non sempre praticato.


  • Chiedere il “permesso” o farsi annunciare. In un mondo multitasking spesso la telefonata trova il proprio interlocutore in una situazione difficile. Chiedere se è disponibile in quel momento è una forma minima di cortesia che deve essere sempre praticata.


  • Rispondere alla richiesta di permesso, ad una mail, ad una richiesta. Magari negandosi, ma l’assenza di risposta non può essere addotta alla mancanza di tempo. Può capitare, ma se diventa costume aumenta la sfiducia nella persona.


  • Calibrare il tono di voce, soprattutto in contesti pubblici, ma anche nelle relazioni a due. Un tema segnatamente culturale, ma è bene ricordare che i luoghi di lavoro non corrispondono necessariamente al bellissimo e colorato mercato della Vucciria.


  • Gestire l’imbarazzo. Ci sono momenti segnati dall’imbarazzo. Un incontro molto formale, il primo giorno di lavoro, le attese di un cliente particolare. Soccorrere il proprio collega, dare le informazioni necessarie, utilizzare il senso dell’humor…. Tutte strategie possibili per alleggerire i momenti di difficoltà.


  • Utilizzare corrette mosse di apertura. In molte situazioni sociali è utile introdurre la relazione affinché diventi efficace. Presentare una persona, avviare una riunione tra sconosciuti con un giro di tavolo, utilizzare una modalità discorsiva cooperativa (richiesta di informazione, rielaborazione delle frasi, chiarimento di quanto sta accadendo prima del giudizio).


  • Sviluppare una buona conversazione. Lakoff (1973), una delle prime studiose ad occuparsi di cortesia, sostiene che essa si basa su tre principi, che sono anche alla base di una buona strategia negoziale: non importi, offri delle alternative e fai sentire il tuo interlocutore a suo agio.


  • Deferenza alla gerarchia non piaggeria. Il confine non sempre è chiaro, ma l’eccesso di deferenza può essere scambiato dal superiore gerarchico e dai colleghi come la moneta di scambio dell’adulazione. Purtroppo apprezzata da alcuni…


  • I confini della galanteria. Nel rapporto tra i generi vi sono molte aree di rischio, soprattutto in differenti contesti culturali. Un complimento di un uomo mediterraneo ad una signora è dovere, per alcune donne del nord Europa, può rasentare la molestia. Della serie attenzione alla cortesia nel rapporto tra uomini e donne. Purtroppo in molti paesi, ancora oggi, le donne possono parlare solo se il maschio le ammette alla conversazione, cosa che spesso si guarda bene dal fare.


Conclusioni: educare al rispetto


Come si è più volte sottolineato è possibile non solo educare al rispetto, ma anche progettare organizzazioni che tengano conto dell’individuo.

In un ipotetico itinerario di diagnosi organizzativa e culturale, che disegni anche un nuovo approccio alla responsabilità sociale d’impresa, potremmo partire da scelte di natura progettuale molto ampia.


Posizioni organizzative non “rispettose”

E’ possibile rileggere le posizioni organizzative identificando quelle che, come nel periodo della rivoluzione industriale, risultano alienanti per l’individuo? Pensiamo ad esempio ai call center e ad alcune modalità di gestione che li regolano. Al tema della sicurezza, del giusto salario. Temi che sembrano superati, ma che nelle catene di sub fornitura, anche in Occidente, senza arrivare al terzo mondo possono esistere.

Alle aree critiche di non rispetto possiamo aggiungere gli itinerari di inserimento dei giovani. Quanti passaggi contrattuali devono essere sopportati prima di arrivare ad un lavoro retribuito coerentemente?

Infine, per concludere questa prima disamina che può andare sotto il più ampio e spesso molto comunicato ambito della responsabilità sociale, come vengono gestiti gli inserimenti dei disabili obbligatori per legge?


Rivisitazione delle regole e dei sistemi operativi

Molte sono le possibili attenzione alle regole come strumento di “esclusione” spesso di natura implicita.

Il tema dei confini di età applicato ai talent pool, ad esempio, che spesso non tiene conto dell’evoluzione demografica, piuttosto che le regole di accoglienza al rientro di una malattia o della maternità.

Molto attuale è il performance management e la sua calibrazione con i tempi effettivi di svolgimento del lavoro. Pratiche molto positive di smart working, si arenano spesso su carichi di lavoro che, non tenendo conto del reale tempo da dedicare, diventano strangolanti, costringendo i singoli a delle marce forzate e impedendo, nei fatti, proprio quell’equilibrio vita-lavoro che il lavoro flessibile dovrebbe consentire.


Costruire una cultura del rispetto

Coinvolgimento manageriale, in primo luogo, sui temi sopra delineati, ma anche attivazione di tutta la popolazione aziendale. Formazione in primo luogo, ma anche eventi evocativi e narrativi.

Utili lo scambio dei punti di vista attraverso “viaggi”, esterni ed interni. Esterni in altre realtà contigue, sia dello stesso settore ad esempio monte e valle della filiera del valore, ma anche realtà del territorio no profit, case di riposo, residenze per disabili.

I viaggi interni possono essere progetti di scambio tra funzioni, mentoring, reverse mentoring, shadowing, ovvero l’accompagnare il collega di un’altra funzione per una giornata di lavoro.

Opportunità formative di rivisitazione delle modalità comunicative, sull’utilizzo e i confini dello humor, sulla capacità di costruire i propri soggettivi piani di sviluppo.



Sono solo alcuni degli esempi possibili tra i molti. Importante è condividere una visione, quella del rispetto come ambito necessario per lavorare insieme, per costruire spazi di crescita collettiva ed individuale, per avere un terreno comune di scambio. Se questo obiettivo è condiviso, il trovare strade di rafforzamento di questa convinzione può essere un esercizio di creatività molto interessante.







Bibliografia



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Bourdieu, P., Per una teoria della pratica, Raffaello Cortina, 2003

Bumann, Z., Intervista sull’identità, Laterza, 2005

Gardner, H., Formae mentis, Feltrinelli, 2002

Harlem W., Dignità. Pensare in grande all’essere umano, Queriniana, 2013

Hodson J, Rush Y., Macinnis C.C., A joke is just a joke (except when it isn’t): cavalier humor belifes facilitate the expression of group dominance motives in Journal of Personality and Social Phsycology, 2010 OCT; 99(4):660-82

Lakoff, R., The logic of politness, in Corum, Smith-Stark, Weiser – Meeting of linguistic society (1973)

Parsi M.R., Ingrati, la sindrome rancorosa del beneficiato, Mondadori, 2011

Ruch, W., The sense of humor, Mouton de Gruyter, 1998

Sennet R., Rispetto, Il Mulino, 2003 (trad. italiana Il Mulino, 2004)

Weick, E.W., Senso e significato nell’organizzazione, Raffaello Cortina, 1997


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