Forse la frase che più spesso oggi si sente ripetere nei luoghi di lavoro è: “Non ho tempo….”. Viene usata per scusarsi dei ritardi “Non sono riuscito a completare il lavoro, a rispondere all’email, a mantenere una scadenza, perché non ho avuto tempo….” Oppure per limitarsi nei desideri e nei progetti: “Volevo iscrivermi in palestra quest’anno, avrei voluto passare le vacanze con i miei genitori, ho un libro in mente da anni, riprenderei volentieri l’università… ma non ho tempo!”.
Cosa è successo alle nostre agende, alla nostra organizzazione della vita, alle relazioni che intrecciamo con gli altri per diventare poveri di tempo?
Proverei a rispondere a questa domanda partendo da alcuni spunti di natura sociale e organizzativa, per poi concentrarmi su un’altra domanda conseguente: è possibile difendersi? E’ possibile riappropriarsi della dolcissima sensazione di galleggiare nel tempo? E come?
Ovviamente non pretendo di dare la formula magica che abilmente usata possa risolvere ogni problema: come spesso accade è questione di equilibrio. Una vita spesa nell’ozio, nonostante l’opinione di Lafargue, genero di Marx che ne scrisse l’elogio, è sicuramente più noiosa di una vita attiva. Ovviamente senza esagerare.
Iniziamo col dire che le persone sono il tempo che vivono. Non esiste probabilmente nessun altro elemento così fondante l’identità. La coscienza del ciclo passato – presente – futuro rappresenta la vita stessa, di conseguenza il senso dell’Essere è la temporalità, come afferma Heidegger.
Il differenziarsi dell’essere umano dai suoi progenitori avviene proprio con l’acquisizione della memoria a lungo termine che, a differenza di quella a breve, consente l’instaurarsi di cicli di apprendimento.
Da questo deriva che una delle prime esigenze umane è la regolarità, ossia avere la rassicurazione che il tempo continua, così come la vita. Dal terrore dei nostri progenitori che si chiedevano se il sole sarebbe sorto ancora dopo il buio agghiacciante della notte, all’angoscia del neonato che teme la scomparsa della fonte di cibo e di tepore, l’uomo insegue la regolarità come elemento di sicurezza e quindi di identità.
La regolarità rimanda all’importanza del tempo ciclico, del continuo ritorno, importanza che è comunque cambiata nel passaggio dal tempo sociale regolato dalle stagioni nei contesto agricoli, al tempo lineare che si è imposto dopo la rivoluzione industriale. E’ nella stessa rivoluzione industriale che i lavoratori iniziano a “vendere” il loro tempo.
Nella società contemporanea le persone si trovano strette tra diverse pressioni temporali che premono sull’organizzazione soggettiva dei tempi. In primo luogo il tempo del lavoro che costituisce, anche per dimensione, il pilastro centrale attorno a cui si organizzano gli altri tempi. Possiamo poi pensare agli tempi allocati nel “dovere”, quelli della spesa, della burocrazia, della coda in banca, dell’iscrizione a scuola e a quelli del “piacere”, la passeggiata, la lettura, una serata di discoteca e così via, a seconda dei gusti individuali.
Mantenendo questa tripartizione possiamo constatare come in tutti gli ambiti vi è una maggiore domanda di tempo.
Per quanto riguarda il tempo dedicato ai “doveri”, nonostante la tecnologia e la potenziale possibilità di disporre di informazioni in tempo breve, le complessità delle relazioni, il bizantinismo procedurale della nostra pubblica amministrazione, lo stesso moltiplicarsi delle organizzazioni da cui si dipende stanno dilatando la sensazione soggettiva di tempo “sprecato” in attività spesso inutili e farraginose.
Da questo punto di vista gli erogatori di servizi sembrano non cogliere la bramosia di semplicità e di snellezza che il pubblico auspica. Basti per questo pensare a tutti gli odiatissimi call center, che per avere una misera informazione o connessione con una sorgente “esperta” di conoscenza, fanno trascorrere minuti che diventano ore nella percezione soggettiva. Il tempo quindi non è oggettivo, ma dipende dalla situazione emotiva di chi lo percepisce. Una conversazione di ore con un amico, può apparire velocissima, mentre i duo o tre minuti spesi ad aspettare una risposta al telefono sono quasi eterni.
Insieme con lo sviluppo economico, assieme con l’innalzarsi delle potenzialità soggettive di spesa, si è sviluppata l’industria del “tempo libero”. Mentre nella società preindustriale il tempo del non lavoro era inevitabilmente trascorso tra le mura domestiche o, al massimo, in qualche contiguo luogo di ritrovo, il tempo libero nell’epoca dell’automobile e dei soldi relativamente più facili, aumenta a dismisura le potenzialità di allocazione. Sport, cultura, viaggi, ognuno può in termini potenziali accedere a quasi tutto, con un eccesso di offerta che, inevitabilmente, lascia l’amaro in bocca della privazione.
“Se vado in palestra, non farò tutte le altre mille cose che potrei” : anche in questo caso, quindi, con una percezione di perdita, invece che di vantaggio.
Ho lasciato per ultimo il lavoro, proprio perché è il pilastro centrale dell’organizzazione temporale.
Iniziamo col dire che ancora oggi convivono nelle organizzazioni due grandi blocchi di persone: quelli che hanno un lavoro scandito dai dettami contrattuali o da schemi predefiniti, alcuni operai, la maggioranza delle persone che lavorano nella pubblica amministrazione, gli impiegati d’ordine delle banche, per fare degli esempi, e quelli che invece non hanno limiti di tempo, che assumono comportamenti “imprenditoriali” rispetto al risultato del lavoro e non si pongono limiti di presenza.
Questo secondo gruppo possiamo ancora dividerlo in due: coloro che lavorano molto per obbligo o per necessità ed i cosiddetti workaholic.
Si lavora tanto per obbligo o necessità perché i carichi di lavoro sono inesorabilmente in aumento e si subisce il sadismo organizzativo, a volte consapevole, a volte semplicemente stupido, di “spremere” le persone fino a quando è possibile. Si lavora tanto anche perché bisogna “farsi vedere”, come abbiamo sottolineato nell’articolo precedente, quando bisogna adeguarsi al face time, altrimenti non si fa parte del gruppo.
Gli workaholic sono invece coloro che sono dipendenti dal lavoro o, per dirla all’anglosassone, sono “work addict”. Quelli che non possono vivere senza lavorare.
La dipendenza può avere differenti origini. Il lavoro può essere talmente appassionante da non riuscire a smettere. L’immagine che viene alla mente, per fare degli esempi, è quello dello scienziato o di chi scrive, talmente immersi nell’attività da perdere la nozione del tempo. Questa tipologia di dipendenza nuoce solo a chi ne è afflitto, anche se molti scienziati o scrittori sanno consapevolmente dosare i momenti di iper lavoro e momenti di distacco, anche se la mente spesso tende a ritornare sull’esperimento o sulla pagina lasciata a metà.
La dipendenza più pericolosa è invece legata a coloro che hanno oramai sovrapposto la loro identità personale al ruolo lavorativo: sono divenuti quello che fanno. Queste persone sono pericolose perché non hanno altre tensioni, altri interessi. Sono i monaci dell’organizzazione. Per fare degli esempi sono i manager che non staccano mai, che elogiano la presenza come fattore produttivo, che valutano i loro collaboratori in base all’workaholism che anche essi esprimono. Stressati e compiaciuti, raccontano con orgoglio di quando sono usciti dall’aereo dopo un volo intercontinentale e si sono recati in ufficio, di quella volta che non hanno dormito due notti per il delivery. Oppure del compleanno della figlia perso, della mamma che si lamenta, ma con lo sguardo dispiaciuto più per quello che le ignare figure familiari non possono comprendere che per la perdita da loro subita.
La motivazione che li spinge è facile: il mercato veloce, la concorrenza aggressiva, la meravigliosa sensazione di essere indispensabili. Quella stessa sensazione che li vedrà sul campo fino all’ultimo, perché nessun giovane può sostituirli, perpetuando una gerontocrazia che sta uccidendo la vera competitività del nostro paese.
Se non vi siete riconosciuti in questo ritratto un po’ caustico avete ancora possibilità di recupero.
La prima e più importante azione, che già ho sottolineato nel precedente articolo è organizzativa e suona semplice: valorizzare il merito, valutare i risultati, spendere intelligenze per identificare gli indicatori di direzione corretta. Troppo spesso i workaholic, fisiologicamente troppo stanchi, sono anche pasticcioni e disorganizzati.
Dal punto di vista individuale bisogna agire sulla prospettiva temporale, sulla successione e sulla durata.
La prima è relativa alle modalità con cui ciascun soggetto si orienta nella sequenza passato, presente e futuro. Nel bilanciamento di questa catena sono in agguato distorsioni potenziali che influenzano le capacità delle persone: un ancoraggio troppo forte al passato può condurre all’incapacità di vivere pienamente il presente ed a guardare con fiducia al futuro, così come la tensione troppo forte al futuro impedisce di vivere serenamente il momento presente.
Molte discipline quali lo yoga, lo zen, solo per fare degli esempi, si propongono di aiutare le persone a trovare un equilibrio e di migliorare la capacità esistenziale che viene intesa come benessere, di vivere pienamente il presente.
Il secondo aspetto, la successione, rimanda alla competenza soggettiva di orientamento di fasi e sequenze, mentre la terza, la durata, è relativa alla percezione soggettiva di lentezza o velocità.
Imparare ad acquisire una “velocità lenta” è possibile concentrandosi molto su quello che si sta facendo, evitando ad esempio le interruzioni dovute al telefono, alle email, alle visite improvvise.
Si potrebbe dividere la giornata in alcuni momenti “aperti” di disponibilità e poi segnare alcuni spazi temporali di riflessione e di approfondimento.
Il trucco, come insegnano i saggi di diverse discipline, è concentrarsi profondamente sul presente. Uno dei fattori di stress più elevati riguardano le attività che si debbono fare nel futuro, ma che assillano quelle che si stanno facendo nel presente.
Infine, se l’organizzazione non aiuta nel valutare il raggiungimento dei risultati, è necessario sviluppare una capacità di autovalutazione che possa sostenere nel scegliere di lavorare nei momenti in cui la produttività è massima e staccare quando occorre un rifornimento.
Dopo molte ore di lavoro, sfido chiunque a mantenere la stessa attenzione e fecondità. Allora allontanarsi per una partita di tennis o per una passeggiata non è esattamente disfunzionale all’organizzazione. Se gli altri non lo capiscono, siete autorizzati a mentire. E’ un peccato sostenibile in vista di una migliore organizzazione del tempo personale e di un migliore contributo collettivo. Ovviamente, anche in questo caso, senza esagerare!
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