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Non rinunciate

Immagine del redattore: Cristina BombelliCristina Bombelli

Entro nel bagno delle signore in un’azienda dove da tanti anni svolgo attività di consulenza mi imbatto in Liliana che, imbarazzata, cerca di asciugare in fretta le lacrime che le rigano il viso, ma che appaiono irrefrenabili.

Sapendola sempre grintosa e molto brava mi accosto: “Cosa è successo? C’è qualcosa che non va?”.

Le domande sono il via ad un pianto dirotto. La prendo sotto braccio e usciamo verso il bar, mentre lei trova il tempo di calmarsi e mi racconta.


La storia è apparentemente di ordinaria amministrazione: la valutazione della prestazione è stata negativa, un fatto per lei del tutto inatteso. Durante tutto l’anno il capo non aveva avuto nessuna rimostranza, nessun suggerimento di miglioramento. Poi nel momento di riconsegna della valutazioni, in un colloquio affrettato e senza approfondimenti, le aveva detto che le cose non erano andate bene e che avrebbe dovuto migliorare. Il bonus collegato, ovviamente, non sarebbe stato presente in busta paga.


“Capisci – mormora Liliana ancora affannata - neppure una parola in un anno, e adesso questa bella sorpresa! Tra l’altro so benissimo che al mio collega che lavora meno di me, non hanno dato la stessa valutazione. Allora, come devo prenderla!”

La prima, peraltro ovvia domanda, è: ma tu hai chiesto le motivazioni!

“E come potevo? Mi è venuto un groppo alla gola e me ne sono andata. Ho preso la mia roba e sono uscita senza salutare nessuno. Se fosse per me non ci tornerei là dentro!”.

Cito, come sempre in questi casi, una frasi di mia madre, in perfetto varesotto: Tutti i giorni passano! Anche questo Liliana, vai a casa, dormici su e pensa ad un “pensiero felice”. Ma Liliana è affranta, se fosse per lei, davvero lascerebbe tutto stasera stessa.


Mentre l’aiuto a riordinare i suoi pensieri e, soprattutto, a trovare un altro punto di vista penso a due cose.

La prima è: come avrebbe reagito un uomo al suo posto? Certo non tutti gli uomini, ma la maggior parte di loro?


In primo luogo si sarebbe arrabbiato e avrebbe chiesto, qui ed ora, spiegazione del comportamento del capo. Una condotta che, come tutti i libri di comportamento organizzativo sottolineano, è profondamente scorretta. Il feedback ai collaboratori dovrebbe essere puntuale, volto al miglioramento della prestazione, non sadicamente accusatorio e, soprattutto, documentato.

Ma si sa: tra il dire dell’accademia e il fare delle organizzazioni lavorative c’è spesso una distanza imperscrutabile.


Un uomo, comunque, si sarebbe fatto valere. Liliana è scappata via a piangere.

A questo proposito mi viene in mente una banca in cui una ragazza si aspettava una promozione e quanto invece è arrivata al suo collega maschio, dopo i pianti di rito, era andata dal loro comune superiore a chiedere conto. E lui, candidamente, aveva ammesso che il collega avrebbe “rotto le scatole” molto più di lei e quindi, pur con una prestazione attesa leggermente inferiore, avevano preferito il quieto vivere. A scapito della donna naturalmente, contando sul fatto che poi, come in effetti è accaduto, dopo un primo momento di sbandamento, avrebbe ricominciato a lavorare come prima.


L’altra, e forse più importante domanda è: perché ci lasciamo distruggere da questi episodi?

Quante lacrime abbiamo sparso per un lavoro che non merita, per un capo inetto, per un collega velenoso? Quante volte siamo state assalite dall’angoscia di fronte ad un errore, che alla fine non si è rivelato così tragico come l’avevamo paventato?


Il pericolo che descrivo oggi è un incrocio tra una emotività incontrollata ed una autostima traballante, ed è certamente qualcosa che fa soffrire le donne, per cui non hanno nessuna colpa.

E difficile allora dare dei consigli che non rischino di essere un po’ superflui.

Quello che posso fare è ricordare come si comportano le donne che hanno superato questa fase, di spavento verso l’organizzazione.


Queste persone hanno un atteggiamento che io chiamo da “ricche di famiglia”. La battuta l’ho inventata un giorno in cui un mio capo mi stava dicendo che avrebbero chiuso un progetto a cui in quel momento tenevo molto, ma che l’organizzazione non intendeva portare avanti. Le sue parole furono “Mi rendo conto che per te è un problema….”. Al che mi venne da rispondere: “Non credo sia un mio problema, ma è l’organizzazione che perde un progetto secondo me strategico. Di me non preoccuparti: sono ricca di famiglia….”.


In quel momento ho faticato a trattenermi dal ridere, perché tutto della mia storia si può dire, tranne che vengo da una famiglia abbiente.

Ma in questo caso il “ricca di famiglia” non è una condizione economica, è uno stato mentale.

Le donne sono ricche di identità: possono essere la manager competente, così come la mamma affettuosa, la moglie seduttiva e l’amica comprensiva. Hanno tanti repertori quanto sono gli abiti nei loro armadi e le scarpe che indossano.

Allora è bene che imparino a giocare con i diversi ruoli, come se fossero una ricchezza economica, perché sono anche di più. Essi costituiscono una identità ricca e articolata che non può soccombere quando uno degli aspetti viene messo in discussione.

Allora la prossima volta che vi sentite messe in un angolo, che qualcuno vi ha sopraffatta, che la maldicenza è arrivata a segno, provate a immaginarvi ricche di famiglia e a giocare con tutti gli abiti che avete nell’armadio.


Se vi sentirete così, nel profondo, sarà più facile trovare articolare subito una strategia di difesa, senza passare a spandere lacrime nel bagno delle signore e attraverso una notte insonne piena di rimuginare.

Soprattutto non cedete alla tentazione di lasciare perché il momento è insopportabile. Come dice una mia amica inglese: never give up! Non rinunciate. C’è sempre tempo per cambiare strada o per interrompere il percorso. Anche i giorni neri passano, soprattutto se si può pensare ad un diverso copione.


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