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Non sprechiamo il talento

Immagine del redattore: Cristina BombelliCristina Bombelli

Esiste un pericolo sottile, latente non esplicito che per molti anni e per lo più in situazioni non lavorative, è stato declamato come una virtù. Potremmo definirlo ritrosia, tirarsi in disparte, lasciare che altri prendano il sopravvento.

Un comportamento che era atteso da parte delle donne “perbene” e profondamente radicato nella nostra cultura: non parlare a voce alta, non prevaricare, essere compiacenti e sorridere.


Proviamo ora a situarlo in ambito lavorativo.

In una riunione il capo propone un progetto molto interessante, che darà visibilità nel futuro e sollecita autocandidature. Mentre una persona, di solito una donna, si macera nel dilemma: “Cosa penseranno di me se mi candido? Ce la farò? Non vado a prendermi troppe grane ? » e così via, un’altra persona, di solito un uomo, ha già dato la sua disponibilità.

Seconda scena: siamo sempre in un momento di gruppo. Una donna esprime un’opinione. Viene ignorata dagli altri che proseguono il loro ragionamento. Lei, invece di ribadire la sua tesi, tace e, un po’ ferita, non parla più per il resto del tempo.


Queste due scene hanno in comune un pericolo, quello di omissione e di censura dei propri talenti. I motivi possono essere diversi. Person, una psicologa americana, in diversi articoli su riviste specializzate, ha identificato alcune dinamiche che inibiscono l’ambizione femminile. Alcune sono antiche e ancorate in quel passato in cui le brave ragazze erano ritrose: non corrispondere all’ideale femminile prevalentemente condiviso, paura che il successo comporti perdere l’amore degli altri; altre ragioni invece scendono in profondità e si rapportano all’autostima: paura dell’insuccesso e dell’imbarazzo e vergogna relativi. La paura del fallimento tiene lontane dal rischio della competizione.


Un altro gruppo di ricerche ha messo in luce un diverso atteggiamento rispettivamente maschile e femminile rispetto alle competenze possedute. Mentre gli uomini tendono ad esibire le competenze in loro possesso, quelli che ritengono talenti personali; le donne si concentrano di più sulle proprie mancanze e, all’arrivo della sfida, tendono a preoccuparsi di ciò che non possiedono piuttosto che mettere in evidenza gli aspetti positivi di sé stesse.


La seconda scena è leggermente diversa: la donna ha espresso il suo parere, ma non è stata ascoltata. Anche in questo caso si pagano prezzi antichi. Osservando le dinamiche di un gruppo appare con frequenza che l’opinione di maschile e di chi ha potere, sia più ascoltata di quella di persone meno importanti e femminile. Non si invoca in questa caso una congiura, è semplicemente l’onda lunga di una svalorizzazione atavica che mette in secondo piano le donne. Il risultato non cambia. Per farsi ascoltare bisogna essere determinate e, come si dice, assertive.


Il primo passo verso il superamento di questa latente svalorizzazione è ammettere l’ambizione, passaggio non facile in primo luogo verso sé stesse. Voler raggiungere una posizione elevata non è negativo, avere del potere non vuol dire contribuire alla vessazione dei collaboratori, guadagnare bene non è un sintomo di arrivismo. Tutte questi aspetti possono essere volti in positivo: una posizione elevata dà la possibilità di incidere maggiormente sui risultati, così come un elevato potere consegna le chiavi per volgere le situazioni in modo più consono ai propri valori e ottenere riconoscimenti economici vuol dire vedere valorizzata la propria professionalità.


Ammettendo a sé stesse una sana dose di ambizione sarà possibile il secondo passaggio, quello della competizione aperta, della richiesta di riconoscimento e di risorse. In questa seconda fase bisogna lavorare molto sul perfezionismo, quel mostro divorante di cui abbiamo spesso parlato, che impedisce di accettare gli errori, i propri, ma anche quelli degli altri.


Provate, per una volta, a sbagliare volontariamente. Non rispondete per un giorno a tutte le e.mail, non riguardate per la terza volta i lucidi preparati a caccia dell’errore. Incentivazione a delinquere la mia? No, sano distacco dal prodotto del proprio lavoro.


Spesso le donne arrivate dicono che sono proprio le altre donne le più critiche verso di loro. Trovo questo comportamento una logica conseguenza di quanto descritto. Da un lato l’incapacità di ammettere la propria ambizione fa diventare più feroci verso l’ambizione altrui, dall’altro l’incapacità di affrontare gli errori e l’eventuale sconfitta porta ad una ossessione anche verso gli errori altrui. Spesso nella muta aggressività delle donne verso le altre che ce l’hanno fatta c’è una domanda: “Perché lei sì e io no?”.


Ma la risposta a questa domanda spesso non è nel caso, nella fortuna o nel mentore.

La risposta è interna: non hai avuto il coraggio di volerlo e provarci. Perché di coraggio si tratta. Il coraggio di sfidare ciò che rimane di una pubblica opinione che esalta la devozione e l’accomodamento, il coraggio di entrare nell’agone della competizione e non rimanere nella calda atmosfera della cooperazione e il coraggio, infine, di mettere alla prova i propri talenti. Come nella parabola evangelica solo chi rischia verrà ricompensato.


La tentazione di lasciar perdere è forte, ma la conseguenza è lo spreco delle risorse. E questo è fonte di insoddisfazione personale e di perdita di ricchezza culturale ed economica a livello sociale.

Pensiamoci bene, la prossima volta, quando qualcuno ci propone una sfida.


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